Iniziai la mia prima esperienza in comunità un giorno di grande festa, perché si sposavano Giulio e Antonietta. Rimasi stordita, confusa, non potevo credere ai miei occhi. Chi si sposava erano due handicappati, e lei, bella, con una lunga cascata di capelli, era in carrozzina. Ma allora, non era vero che gli handicappati non si potevano sposare? “Io sposata?” Ma no, figurati, avevo affogato ogni speranza da anni e chissà in quale angolo sperduto l’avevo lasciata. Mi fermai un po’ di giorni per decidere se rimanerci o no. Rimasi colpita dal rapporto che esisteva tra le persone che vivevano in comunità. Ognuna faceva quello che poteva, handicappata o no. Non esistevano “assistenti” e “assistiti”, ma tutti assistenti e tutti assistiti. C’erano dei grandi laboratori di ceramica e di elettronica in cui si lavorava. Altre persone avevano compiti specifici all’interno della comunità. La comunità di Roma in Via Lungro era agli inizi. Io ne ero affascinata ma anche spaventata: mi sembravano cose grandi e irraggiungibili.

Era vigente da poco la legge che autorizzava il servizio civile alternativo al militare. La comunità di Capodarco si ritrovò ad accogliere, come ente convenzionato, i primi obiettori di coscienza. L’avvenimento aveva richiamato l’attenzione della televisione. Sia la Raiuno che la Raidue vennero a fare un servizio per il telegiornale e un altro per un programma più lungo. Chiacchierando con i giornalisti essi trovarono interessante la mia esperienza e mi chiesero se ero disponibile a raccontarla in televisione. Accettai. Andai a riprendere le mie cose al Cottolengo il giorno prima che mandassero in onda la trasmissione.

 

Mi recai al Cottolengo accompagnata dai genitori. Le mie compagne di reparto erano intimorite. Solo Lina mi disse: “Beata te che hai coraggio, io ho troppa paura. Mi mancherai tanto”. Per la verità Lina é mancata tanto anche a me. È l’unica persona all’interno di quelle mura a cui ho voluto veramente bene. Ricordo il volto di suor Emilia; quella mattina era colore del ferro, con un’espressione da luna piena: era il concentrato di tutta la rabbia che si portava dentro. Io ero proprio contenta di sfuggire a quello sguardo pesante. Suor Franceschina neppure in questa occasione riuscì a mettere da parte la sua maschera di donna senza emozioni e con diplomazia mi salutò cordialmente, come se io fossi stata una che passava di lì per caso.

Avevo aspettato tanto questo momento e osservavo tutto con molta attenzione, perché per me era un avvenimento troppo particolare e volevo coglierne tutte le sfumature. Sentivo gioia e paura, la sensazione di aver vinto e il timore di un futuro incontrollabile. Davanti all’ascensore incontrai la superiora. Questa donna mi metteva sempre tanta soggezione. Stava lì diritta e maestosa, e mi urlò con un vocione autoritario: “Da quella porta chi esce non rientra!”. Mi sentii un brivido attraversare tutto il corpo. Pensai: “Riuscirò mai a liberarmi totalmente da questa donna?” Sperai ardentemente di non incontrarla più e di riuscire a cancellarla da ricordi pensieri e sogni.

Voltai le spalle al Cottolengo rimpiangendo di aver bruciato tra quelle mura quindici lunghi anni …

 

Capodarco

 

… Era un’alba calda quella del tre luglio 1974. Avevo trascorso un’interminabile notte e quella mattina mi sentivo agitata, tirata, fredda e sudata, il cuore mi batteva velocemente. Era una giornata importante … Partivo per Capodarco.

 

… Dopo Porto S. Giorgio iniziò una strada con tante curve, poi svoltammo a sinistra, entrammo in un viale alberato, in lontananza si poteva già vedere la villa nella quale ho abitato per più di due anni. Sul piazzale c’era il sole. Alcune persone sembrava volessero sfidare l’afa di piena estate. La casa era molto grande, ma diventava piccola se la paragonavo all’istituto. Mi aspettavo reparti, o comunque divisioni interne per uomini e donne, ed invece con mia grande sorpresa ci trovai luoghi comuni a tutti: solo tra camere esisteva la divisione di sesso, escluse naturalmente quelle occupate da coppie sposate. Esistevano anche la biblioteca e il centro documentazione. Altro luogo comune era il refettorio, un salone con tavoli circolari, ove di volta in volta potevamo scegliere il posto a tavola. Nelle camere c’erano due-tre letti, erano personalizzate, più o meno belle, tutto dipendeva da chi ci dormiva dentro. Era normale trovarci gruppi che discutevano animatamente o che semplicemente ridevano e scherzavano. Altrettanto normale era trovarci persone che studiavano. Io avevo sempre pensato alla camera come luogo per dormire. L’idea di poterci creare all’interno uno spazio di mio gusto mi piacque ...

 

… La mia coperta sulle gambe destava curiosità, non capivano perchè la portavo visto che si scoppiava dal caldo. Io invece trovavo strano che loro non mi capissero …

 

… Convivere tra uomini e donne per me non fu semplice. Mi trovavo imbarazzata vicino ai maschi, e come qualcuno si avvicinava mi sentivo divampare, sapevo che stavo arrossendo e ciò mi metteva terribilmente a disagio.

Facevamo spesso riunioni con i giovani che erano lì per il campo di lavoro. Si parlava di emarginazione, volontariato, protagonismo, autogestione, termini a cui tutti davano molta importanza. Io mi vergognavo di chiedere spiegazioni perchè avrei svelato la mia ignoranza, e ciò non mi era facile perchè colpiva il mio orgoglio.

Tanti avvenimenti nuovi mi stavano accadendo; durante il giorno non c’era più monotonia. La mattina quando mi svegliavo sapevo che la giornata sarebbe stata piena. C’erano in me entusiasmo ed euforia. Mi colpiva particolarmente che persone in carrozzina lavoravano e provvedevano a se stesse. Ciò mi stimolava. Cominciavo a “provare” altre possibilità di movimento e quanta forza fisica possedevo senza saperlo. Mi ritrovai piano piano a fare cose che ero convinta di non poter fare. Assumermi le prime piccole responsabilità mi venne difficile.

Andare al mare e mettermi in costume era il massimo che mi si potesse chiedere. Avevo una vergogna incredibile. Eppure fu superata dalla naturalezza con cui gli altri mi trattavano.

Le serate erano movimentate, si organizzavano giochi comuni, oppure si cantava intorno a qualcuno che suonava la chitarra. Sul tardi, quando molti se ne andavano a dormire, in pochi restavamo a raccontarci tutto, avevamo una grande voglia di comunicare le cose più intime, le più sentite, e queste venivano fuori meglio dopo una certa ora ...

 

… Alla fine di settembre iniziarono tre corsi di formazione professionale: in uno s’imparava a lavorare la ceramica, in un altro la serigrafia e nel terzo i metalli, privilegiando il rame e l’ottone. Potevamo provarli tutti, per scegliere quello che ci piaceva di più, considerando ciascuno le proprie possibilità fisiche e le attitudini. Io mi orientai sulla decorazione della ceramica poichè le fasi di manipolazione mi erano impossibilitate dai miei movimenti troppo limitati. L’esperienza che avevo avuto precedentemente con le matite ed i pennelli mi tornò inaspettatamente utilissima.

Con l’inizio dei corsi mi trovai le giornate organizzate: al mattino dovevo essere pronta in orario, poi le lezioni teoriche, poi la pratica: era tutto impegnativo e serio. Io non ero abituata a questo e ciò mi richiese un grande sforzo di volontà. Man mano che passava il tempo imparai a selezionare le cose, a dare la priorità a quelle più importanti, a tralasciare un po’ le altre.

Ciò che stavo imparando a scuola mi piaceva molto. Ero attratta in modo particolare da “cultura generale”. Si riaccendeva in me il gusto del sapere. Erano troppe le cose che non conoscevo, e molte erano essenziali. Mi sentivo ignorante, e pensare che al Cottolengo ero tra le più istruite. Volevo recuperare il tempo perduto.

Incuriosita e assetata di sapere mi iscrissi ad una scuola per il recupero delle medie. Io con Michele studiammo pazzamente aiutati da alcuni comunitari. Ci recammo a Roma per sostenere gli esami. Era una calda mattina di primavera, la scuola di Centocelle mi sembrò più lontana di quel che pensavo, l’edificio era enorme e con lunghe scale da salire.

Per lo scritto avvertii il disagio di trovarmi in una classe di bambini. Negli orali fu diverso perchè avevo di fronte i professori. Impaurita di non farcela, mi pareva di aver dimenticato tutto. Quando mi chiamarono per l’interrogazione, però, incominciai a parlare, e man mano che andavo avanti mi sentivo più tranquilla, più sicura; me la cavai con l’“ottimo” ...

 

… L’estate del 75 fu totalmente diversa dalla precedente. Nella comunità si delineavano alcuni progetti per il nord, il sud, e il centro Italia, con l’obiettivo preciso di far ritornare le persone handicappate nella propria terra di origine.

Don Franco mi propose di partire per la Calabria con Giacomo, per partecipare ad una vacanza organizzata con alcuni handicappati e volontari del luogo ... Questa vacanza segnò il mio futuro nella Comunità Progetto Sud di Lamezia Terme in cui vivo ancora oggi.



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